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Violenza in famiglia: quando l’addebito della separazione?

Quando la condotta violenta del coniuge comporta addebito della separazione? Lo Studio legale a Torino “Studio Duchemino”, con esperienza nella gestione della separazione a Torino e del divorzio, prende in considerazione la sentenza di merito Tribunale civile Messina, sez. I, 21 marzo 2018 per rammentare alcuni principi saldi della materia.

Quando al coniuge violento si può addebitare la fine della vita coniugale e, soprattutto, con quali prove davanti al giudice?

La risposta sta nel principio secondo cui la violenza in famiglia determina “di per sè” l’addebito.

Si è abituati, in realtà, a ragionare secondo l’impostazione giudiziaria: bisogna trovare le prove, nell’ambito di un procedimento di separazione, che l’impossibilità di una convivenza nasca dalla violazione di un dovere coniugale previsto dal codice civile. Di solito il discorso riguarda l’assistenza morale e materiale richiesta al coniuge, ma anche l’obbligo di fedeltà. L’addebito della separazione, che ha l’effetto di escludere il diritto ad un assegno di mantenimento, è il risultato di un accertamento che riguarda l’imputabilità del fallimento coniugale.

Ora, nel caso di condotte violente di un coniuge, la giurisprudenza, come ricorda l’avvocato familiarista a Torino, è incline a ritenere che la condotta violenta di un coniuge verso l’altro non sia comparabile con nulla, se non altrettanta violenza dell’altro coniuge verso il primo. L’esistenza, accertata dal giudice, permette di ritenere di per sè provata l’addebitabilità della separazione.

Si leggano le motivazioni della sentenza siciliana:

la condotta di un coniuge che si traduce in fatti di violenza nei confronti dell’altro coniuge ed in forme di persecuzione morale costituisce violazione del dovere di assistenza morale e materiale sancito dall’art. 143, comma 2 c.c., oltre che del dovere di collaborazione nell’interesse della famiglia, tale da giustificare la pronuncia di addebito della separazione.

E ciò a livello di principio.

Tuttavia, ed è ciò che conta, a livello di motivazione:

i comportamenti medesimi, proprio in ragione della loro estrema gravità, escludono qualsiasi possibilità di comparazione, se non rispetto a comportamenti omogenei, non potendo in alcun modo la violenza essere giustificata come reazione o ritorsione nei confronti del partner e legittima pienamente l’addebitamento della separazione, in quanto impedisce l’esplicarsi della comunione di vita nel suo profondo significato, così determinando una progressiva disaffezione tra i coniugi che, aggravandosi nel tempo, è l’origine dell’intollerabilità della convivenza (Cass. civ., sez. I, 7 aprile 2005, n. 7321).

Appare evidente, quindi, che il coniuge debba dimostrare unicamente il comportamento violento, protratto nel tempo. Tale dimostrazione è sufficiente a ritenere provato il nesso causale tra detto comportamento e la rottura familiare.

Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 24 aprile 2018

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