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Società: aumento di capitale e buona fede contrattuale

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Trib. Bologna Sez. Specializzata in materia di imprese, Sent., 09-12-2016 decide su un caso, accaduto anche a Torino, di aumento di capitale “asseritamente abusivo”: in cui, cioè, si discuteva se uno dei soci di minoranza fosse stato danneggiato dalla delibera di aumento di capitale, non avendolo sottoscritto e peraltro avendo ceduto la propria partecipazione durante il processo. La Corte premette, però:

l’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. n. 1361/2011); l’esecuzione del contratto di società deve essere infatti improntata al suddetto principio di buona fede in senso oggettivo, in applicazione del quale la cosiddetta regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell’altrui potenziale danno.

Nota il Tribunale che la partecipazione era stata ceduta in corso di causa, per cui l’impugnativa di nullità della delibera di aumento di capitale per asserito abuso del diritto si scontrava già in partenza con il disposto del codice civile:

in proposito l’art. 2378, secondo comma c.c. prevede che, qualora nel corso del processo venga meno a seguito di trasferimenti per atto tra vivi il numero di azioni previsto dal terzo comma dell’art. 2377 c.c. in capo all’impugnante, il giudice non possa pronunciare l’annullamento e debba provvedere soltanto sul risarcimento dell’eventuale danno, ove richiesto.

A parte questo aspetto, però, nel merito della controversia riguardante l’asserito abuso nell’adottare da parte del socio di maggioranza una delibera di aumento di capitale che possa alterare gli equilibri societari, il Tribunale osservava che lo stato di sovraindebitamento della società era alquanto reale:

è documentato in atti, confermato dall’audizione di amministratori e sindaci effettuata in sede cautelare e sostanzialmente non contestato dalla convenuta che la società ‘B.G.’ S.p.A. versasse, quanto meno dall’anno 2012, in una grave crisi finanziaria e avesse di conseguenza necessità di reperire liquidità, avendo contratto una rilevante esposizione debitoria con diversi istituti di credito e in particolare con MPS. Risulta inoltre che la società aveva già tentato, senza successo, di ricapitalizzarsi con precedenti delibere di aumento di capitale (una delle quali con sovrapprezzo) non andate a buon fine o eseguite parzialmente; d’altro canto, sia il presidente del consiglio di amministrazione, sia il presidente del collegio sindacale avevano espresso una (corretta) valutazione negativa in ordine alla possibilità, alternativa all’aumento di capitale, di rifinanziare la società tramite emissione di un prestito azionario, in quanto in tal modo si sarebbe andata ad aggravare ulteriormente la già pesante situazione di indebitamento.

Allo stesso tempo, dal versante del socio di minoranza emergeva la mancata prova dello stato di illiquidità del fondo di investimento attore, che in effetti non aveva dimostrato di non poter sottoscrivere l’aumento, anzi non lo aveva sottoscritto per una decisione volontaria e consapevole:

Neppure risulta allegata e tanto meno provata, con riguardo al profilo oggettivo, l’eventuale situazione di illiquidità del socio di minoranza ‘A.’ S.p.A.; al contrario deve presumersi che quest’ultimo, in qualità fondo di investimento, risultasse all’epoca della delibera dotato di risorse finanziarie più che adeguate e che, pertanto, la scelta di non sottoscrivere la parte di capitale rimasta inoptata, in tal modo consentendo al terzo ‘Y.’ S.r.l. di entrare a far parte della compagine sociale, sia stata vagliata e adottata in piena libertà ed autonomia.

A fronte di tutto ciò, pertanto, il socio di minoranza non può dolersi di un eventuale danno, che va dimostrato e del quale i presupposti devono sussistere concretamente.

Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 28 gennaio 2017

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