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Licenziamento: come si impugna e chi lo può fare? Risponde l’avvocato del lavoro a Torino

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Come si impugna il licenziamento? Soprattutto, quale veste deve assumere l’atto di impugnazione? La risposta è che tale atto, compiuto dal lavoratore o da chi per esso, deve rivestire una forma adeguata per essere dimostrato in giudizio, per essere quindi attestato davanti ad un giudice. Ci dà conto di questo la sentenza  Corte di cassazione civile, sez. Lavoro, 28 settembre 2018, n. 23603, secondo cui l’atto di impugnativa non può essere dimostrato con testimoni.

Andiamo con ordine. Chi si rivolge all’avvocato del lavoro spesso ha un licenziamento in corso. Si tratta di una delle questioni che spingono ad individuare, anche via web, un avvocato del lavoro a Torino. L’avvocato del lavoro in questi casi riceve il cliente spiegando quanto sia importante agire con razionalità nella fase delicata in cui si rischia un licenziamento.

Una volta ricevuta la comunicazione – tra parentesi non serve a nulla far finta di non averla ricevuta, così come rifiutarsi di sottoscrivere la raccomandata -, il lavoratore o il suo avvocato, ovvero un sindacato, possono impugnare l’atto di licenziamento. Ricordiamo che a seguito del Jobs Act e del decreto dignità la conseguenza del licenziamento illegittimo, a meno che non sia nullo o discriminatorio, è sempre il (solo) risarcimento del danno, oggi parametrato su un minimo di 6 mensilità e poi di due per ogni anno lavorato.

L’impugnativa del licenziamento è un atto scritto.

La Legge 15 luglio 1966 n. 604 Art. 6 stabilisce che

l licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso.
L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
Tutto questo è molto importante: l’avvocato del lavoro sa che ci sono solo 60 giorni per impugnare e una volta impugnato l’atto di licenziamento bisogna attivarsi con un ricorso entro 180 giorni. Ricordiamo che la norma citata prevede una impugnazione scritta.
Allo stesso tempo, l’art. 2725 cod. civ. stabilisce, in materia di prova testimoniale, che
2725
Atti per i quali è richiesta la prova per iscritto o la forma scritta.
Quando, secondo la legge o la volontà delle parti, un contratto deve essere provato per iscritto, la prova per testimoni è ammessa soltanto nel caso indicato dal n. 3 dell’articolo precedente.
La stessa regola si applica nei casi in cui la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità
E’ abbastanza ovvio, quindi, sommando il disposto delle due norme, che la Corte di Cassazione non ritenga possibile provare con testimoni l’avvenuta impugnazione, visto che il lavoratore ha l’onere di agire per iscritto. Dice, infatti, la motivazione della sentenza:
In tema di licenziamento individuale, l’impugnativa ex art. 6 della l. n. 604 del 1966 costituisce un atto negoziale dispositivo e formale che può essere posto in essere unicamente dal lavoratore (oltre che dall’associazione sindacale, cui quest’ultimo aderisca, in forza del rapporto di rappresentanza “ex lege”), da un suo rappresentante munito di specifica procura scritta o da un terzo, ancorché avvocato o procuratore legale, sprovvisto di procura, il cui operato venga successivamente ratificato dal lavoratore medesimo, sempre che la ratifica rivesta la forma scritta e sia portata a conoscenza del datore di lavoro prima della scadenza del termine di sessanta giorni per impugnare; ne consegue l’inammissibilità della prova testimoniale in ordine all’esistenza dell’atto, ai sensi dell’art. 2725, comma 2, c.c., se non nel caso in cui il documento sia andato perduto senza colpa.
Poco spazio, spiega l’avvocato del lavoro, per una impugnativa che si possa dimostrare con testimoni. Attenzione, quindi, a porre in essere in modo corretto gli atti necessari.
Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 2 dicembre 2018

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