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Impreditore condannato se non versa l’I.V.A.

E’ stato condannato per non aver versato l’I.V.A. e aver preferito pagare le retribuzioni ai suoi lavoratori.

E’ accaduto ad opera della Corte d’Appello di Torino per un imprenditore cuneese, con sentenza di Cassazione che conferma la condanna. Si premette che il tema è delicato. La Suprema Corte si è occupata varie volte di questo problema, ad esempio con la sentenza Sez. Unite, n. 37424 del 28 marzo 2013 – dep. 12 settembre 2013, Romano, in CED Cass., n. 255758. Costituisce precedente giudiziario anche Cass. Pen., Sez. Unite, 12 settembre 2013, n. 37424.

Qual è il problema? L’I.V.A., come sottolineato dalla dottrina, è una sorta di partita di giro, nel senso che il contribuente titolare di partita I.V.A. deve conservare le somme che gli pervengono a questo titolo, ma poi versarle allo Stato, quasi fosse un sostituto di imposta. In questo intervallo di tempo il soggetto è indotto, spesso, ad “usare” quel denaro. Non sempre, però, quel denaro è stato acquisito nonostante l’emissione della fattura (in questo caso dovrebbe valere, secondo la riforma del 2012, il principio di cassa). In alcune ipotesi, poi, il soggetto, al fine di evadere l’I.V.A. altera la dichiarazione dei redditi, in altre invece la dichiarazione è regolare.

Non è tanto importante arrivare a stabilire o definire i criteri per verificare se il soggetto fosse o meno consapevole della commissione di un reato (sopra i 50.000,00 euro di evasione I.V.A.), perchè in questo senso è stata ritenuta sufficiente la consapevolezza e volontarietà generica di non pagare (dolo cosiddetto generico), attestata per esempio dalla presentazione della dichiarazione annuale I.V.A., dalla quale emerge l’importo dovuto e quindi dalla quale si desume la consapevolezza dell’evasione fiscale. Il problema maggiore è capire se il reato viene integrato anche in presenza di valori costituzionalmente protetti, che il soggetto “preferisce” al semplice pagamento dell’imposta. Ad esempio, tutelare i suoi lavoratori, se si tratta di un imprenditore, pagando lo stesso le retribuzioni nonostante la carenza di liquidità.

Dall’altra parte è necessario capire che tipo di importanza possa avere il valore del lavoro, che è costituzionalmente protetto, rispetto al pagamento delle imposte, che consentono il funzionamento dello Stato e la cosiddetta spesa pubblica.

Ora, nel caso analizzato dalla Cassazione e prima dalla Corte d’Appello di Torino, i supremi giudici non ritengono che il lavoro sia un valore che rientra nello “stato di necessità” invocato dall’imprenditore. Per tutelarsi, infatti, quest’ultimo aveva invocato lo stato di necessità di salvare i lavoratori e il posto di lavoro (art. 54 cod. pen.). In pratica, di non essere imputabile a causa del fatto che aveva agito effettivamente omettendo il versamento dell’imposta, ma per uno scopo “nobile”, cioè salvare le retribuzioni.

La valutazione è evidentemente caduta sulla questione teorica: se il lavoro possa “di per sè” costituire un valore costituzionale che può essere tutelato, in alcuni casi di necessità, violando il codice penale. In effetti, il problema è sempre la situazione concreta: diversa è la situazione, infatti, di una famiglia nella quale entrambi i genitori lavorano, con redditi magari non bassi, nella quale non vi siano figli da mantenere, altra situazione, per estremizzare il discorso, è quella di una famiglia nella quale un solo genitore lavora, magari in presenza di tre o quattro figli da mantenere, in assenza di sussidi e con stipendio al di sotto della soglia di povertà. E’, quindi, probabilmente necessario valutare anche i singoli aspetti di una vicenda, per un giudizio equilibrato, in quanto anche se può essere vero che perdere il lavoro non è una questione di vita o di morte, la valutazione può dipendere dalle situazioni concrete. In ogni caso, questo arresto della Cassazione non fa che confermare che la perdita del lavoro non può costituire un grave danno alla persona.

Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 27 luglio 2015

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