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Come funziona il licenziamento dopo il Jobs Act?

Il cosiddetto Jobs Act – L. 10 novembre 2014, n. 183 – ha consentito l’emanazione di un decreto legislativo, il n. D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, il quale disciplina i contratti di lavoro a tutele crescenti e ovviamente anche la questione del licenziamento.

La data fatidica per l’applicazione del nuovo regime è stato il 4 marzo 2015. Per i contratti successivi al 4 marzo 2015 si applica la nuova disciplina. Si tratta, ovviamente, dei contratti conclusi dopo questa data.

Il decreto legislativo che abbiamo citato reca “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183“. In pratica attua la legge che ha introdotto le novità di diritto del lavoro.

Questo decreto consta di 12 articoli:

Art. 1. Campo di applicazione

Art. 2. Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale

Art. 3. Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa

Art. 4. Vizi formali e procedurali

Art. 5. Revoca del licenziamento

Art. 6. Offerta di conciliazione

Art. 7. Computo dell’anzianità negli appalti

Art. 8. Computo e misura delle indennità per frazioni di anno

Art. 9. Piccole imprese e organizzazioni di tendenza

Art. 10. Licenziamento collettivo

Art. 11. Rito applicabile

Art. 12. Entrata in vigore

L’art. 3, comma 2, del decreto legislativo è il cuore della disciplina. Rispetto alla Legge Fornero, si dice quanto segue:

2.  Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all’articolo 2, comma 3″

La dottrina si arrovella a capire che cosa si debba intendere per “fatto materiale”. Dire, infatti, che uno deve essere reintegrato se dimostra che non sussiste il fatto materiale che gli viene imputato potrebbe voler dire che ha diritto di reintegra nel posto di lavoro solo se il nucleo del fatto, quello concreto e storico, non si è verificato. Ad esempio, se uno ha risposto male al datore di lavoro potrebbe rimanere licenziato, mentre se non ha risposto male no; anche se rispondere male potrebbe essere solo un fatto di maleducazione, ma non avere una rilevanza giuridica.

Nella Legge Fornero, precedente, le cose stavano diversamente, perchè la disciplina garantiva il licenziamento al datore di lavoro a condizione che il fatto non sussistesse e un fatto potrebbe non sussistere anche quando non ha alcuna rilevanza legale, pur essendo accaduto realmente. Il problema di fondo, quindi, sta nella rilevanza che si dà al fatto, non tanto alla circostanza che sia accaduto o meno. Un fatto assolutamente irrilevante, di pochissimo conto, come rispondere ad un messaggio sms, potrebbe essere rilevante giuridicamente, al contrario un fatto di grande entità potrebbe essere irrilevante giuridicamente. Questo inciso del Jobs Act, secondo cui la reintegra è dovuta se il fatto materiale non sussiste crea complicazioni inutili, in quanto sembra quasi che la reintegra sia dovuta solo se non è mai accaduto il comportamento che viene imputato al lavoratore, mentre se è accaduto, pur essendo totalmente ininfluente e irrilevante dal punto di vista della fiducia del datore di lavoro nel suo collaboratore, potrebbe portare ad un licenziamento definitivo.

Su questo dibattito si inseriscono le due sentenze della Corte di Cassazione, n. 20540 del 2015 e n. 20545, sempre del 13 ottobre 2015, che mettono subito un punto fermo: la totale irrilevanza, dovuta ad una mancata illiceità del comportamento, viene equiparata – correttamente – alla insussistenza del fatto materiale di cui al decreto.

E ciò appariva anche logico che sarebbe successo, che cioè il Supremo Collegio specificasse questo punto, proprio perchè la descrizione del fatto “materiale” ha creato diversi problemi. Un fatto totalmente irrilevante, privo di qualsivoglia motivo di rottura della fiducia lavoratore-datore di lavoro si considera come insussistente e viceversa, proprio perchè se il parametro della legge è quello, è ovvio che il correttivo giurisprudenziale deve tenere conto della ragionevolezza, per cui non si può perdere il posto di lavoro per “aver soffiato il naso” in presenza del datore di lavoro o per altri comportamenti oggettivamente irrilevanti.

Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 20 ottobre 2015

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