Sono ormai anni che ci si chiede quale sia il modello “perfetto” di studio legale, e ciò avviene anche nella realtà torinese che visse gli anni di Piombo, l’era della Fiat e ora è introdotta all’interno di una rivoluzione culturale e antropologica che la proietta sempre più sugli scenari internazionali. Quegli stessi orizzonti su cui si basa l’esigenza della specializzazione forense di cui alla legge 247/2012.
Nel passato, lo studio legale “tipo” era la piccola bottega artigianale. Il titolare era quasi sempre un avvocato capace di assistere il Cliente in ogni circostanza, sia nelle controversie amministrative, sia in quelle di diritto civile, sia nell’ambito penale. Questa tipologia, dunque, garantiva la sopravvivenza di studi legali celebri per il fatto di preservare all’interno della stessa famiglia o nell’ambito del perpetuarsi di un nome una professione sempre più complessa, ma ancora piena di soddisfazioni. Oggi cosa sta accadendo? Dopo un tentativo delle Istituzioni Comunitarie di alterare le vecchie professioni, gettandole all’interno di un’ottica spartana di mercato libero (tutti si ricorderanno il lento e costante logorio che l’allora Commissario Europeo Mario Monti cercava di esercitare sulle vecchie categorie tradizionali delle professioni “protette”) e sperando così di garantire un abbassamento dei prezzi delle prestazioni, e dopo una lunga e costosa opera di smantellamento ideologico (che ebbe culmine nell’abolizione del divieto di pubblicità per gli studi legali), quello che sembrava alle porte era ancora un rinnovamento “anglosassone” dell’avvocatura, con la creazione di ampi studi legali formati da centinaia di professionisti. Quegli stessi studi che a Torino in pratica si contavano sulla punta delle dita, ma non erano certo la realtà dominante e forse nel milanese potevano essere più diffusi, anche per la realtà imprenditoriale più feconda dell’area e per la tendenza nel diritto di impresa ad assistere il cliente “a tutto tondo”, sia sotto il profilo fiscale-commerciale, sia sotto i vari profili legali interessati.
Bisogna dire, però, che tale modello non ha attecchito.
Infatti, al vecchio studio tradizionale, formato da uno o al massimo due professionisti, non si sono sostituiti modelli “americani” di studio legale, i famosi uffici a più piani che compaiono nei film, da Chicago a New York, ma forse un modello ancora diverso. Lo studio “boutique”, come descritto in un articolo apparso su Diritto24 il 14 ottobre scorso. Si tratterebbe, infatti, dello studio legale di medie dimensioni, altamente specializzato. Ma già negli anni Duemila si ventilava la diffusione di centri di servizio legale imparentati con le nuovissime materie allo studio, tra cui la fiscalità e il diritto finanziario, la proprietà intellettuale e i nuovi approdi della tutela del diritto d’autore in materia di nuove tecnologie.
Resta il fatto che forse la nostra cultura non è del tutto permeabile alle culture straniere, specialmente se gli istituti giuridici non sono compatibili, nelle loro premesse teoriche, con quelli di “casa nostra”. Tipico esempio è stato il travagliato tentativo di introdurre in Italia il Trust, istituto che rimetterebbe in discussione in modo totale la categoria nostrana della “proprietà” di origine romanistica. Detto questo, appare evidente che i grandi studi legali operano nell’ottica dell’analisi economica del diritto, dove patteggiamento e concordato appaiono sempre le soluzioni “più giuste”, pur essendo solo le soluzioni più sensate sulla base delle teorie della negoziazione e sulla base della teoria dei giochi che qualcuno ha voluto applicare al diritto.
A fronte di questo, tuttavia, permane il vecchio modello tradizionale di studio legale, specialmente a causa dell’enorme quantità di avvocati abilitati, che si incrementa ogni anno e che pone in seria discussione la questione del reddito pro-capite, delle alterazioni della concorrenza legale sulla base di pratiche scorrette e della mala-giustizia come risultato-effetto della cattiva gestione dei flussi di ingresso alla professione forense.
E’ impensabile, infatti, che il modello base di studio legale moderno e contemporaneo non dipenda anche dal numero degli avvocati, dalle esigenze di reddito e di previdenza e dalle nuove tecnologie. Attualmente, infatti, è possibile constatare che soprattutto gli avvocati giovani, a Torino come altrove, avvalendosi dell’outsourcing, dell’esternalizzazione dei servizi di sergreteria e del processo telematico sembrano confermare una tendenza opposta a quella dello sviluppo di nuove realtà, conservando un ancoraggio molto forte al modello tradizionale dell’avvocato “tuttofare”.
Articolo redatto a Torino dallo Studio Duchemino, 4 novembre 2014